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Quale Ruolo Per L’economia Sociale Nell’agenda Europea?

Contributo di Giulio Pasi, Scientific Officer & Policy Advisor presso la Commissione Europea e Presidente del Comitato Scientifico di Social Impact Agenda per l’Italia

A livello europeo, il Social Economy Action Plan rappresenta verosimilmente l’iniziativa di policy più importante in cantiere oggi, in grado di cogliere diversi aspetti innovativi che emergono dalla effervescenza sociale di tante comunità. Il piano, che verrà lanciato a dicembre 2021, è ancora un “documento aperto” che deve trovare una definizione su alcuni aspetti specifici. Ciononostante, alcuni suoi tratti possono già essere condivisi, anche in virtù dei numerosi spunti raccolti dalla Commissione Europea durante le consultazioni sino ad ora svolte.

La sfida maggiore è sicuramente quella di cogliere e comprendere i movimenti e le dinamiche che stanno caratterizzando l’attuale panorama europeo dell’economia sociale e non solo, anche perché spesso quello cui le istituzioni ambiscono è riuscire a fotografare ciò che si vorrebbe supportare attraverso lo strumento di policy.

Tuttavia, se pensiamo al processo di cambiamento che stiamo vivendo ed alla sua velocità, insieme alle sue implicazioni sistemiche, fare una fotografia – cioè ottenere una riproduzione statica di un determinato oggetto – è davvero molto difficile. Per questo motivo, la sfida a cui siamo chiamati a rispondere è quella di riuscire a rappresentare un oggetto in continuo divenire. La sfida che il Piano di Azione per l’Economia Sociale dovrebbe e vorrebbe cogliere è quella di offrire un quadro generale che rispetti la dinamicità dell’economia sociale. A livello europeo l’Action Plan rappresenta dunque il tentativo di raccogliere misure utili allo sviluppo dell’Economia Sociale in quanto elemento in movimento.

Per far sì che questo sia possibile, per prima cosa, occorre capire come l’Action Plan si collochi all’interno della complessa architettura europea formata da strumenti e iniziative di policy. A questo riguardo, il fatto che il documento sia stato annunciato con un altro Action Plan, questi riferito al Pilastro Europeo dei Diritti Sociali appare essere elemento eloquente. Ciò che emerge infatti è che anche a livello europeo l’Economia Sociale non rappresenta una nicchia, un nice-to-have, come le statuette decorative in certi giardini ben curati, ma un qualcosa che ha a che fare con un ripensamento e un cambio di processo nella modalità attraverso cui si disegnano le politiche sociali.

In maniera più diretta si potrebbe dire che l’economia sociale inizia ad essere riconosciuta come una componente fondamentale nel disegno delle politiche sociali e ad essa è altresì riconosciuto un ruolo nella loro implementazione.

Un secondo aspetto da considerare, fondamentale anche per comprendere la direzione verso cui dovremmo andare, è il legame che unisce l’Action Plan all’investimento sociale e all’innovazione sociale, come esplicitamente segnalato in molti dei documenti preparatori sino ad oggi circolati. Spesso, soprattutto chi vive nel mondo dell’Economia Sociale e si occupa anche degli aspetti finanziari, tende ad associare la definizione di investimento sociale a quella di impact investing o talvolta alla finanza sociale.

In realtà, il termine investimento sociale nasce già negli anni Novanta, all’interno del dibattito svolto da economisti e studiosi di politiche sociali per offrire una alternativa alla polarizzata discussione tra visioni neo-keynesiane e neo-liberali. L’idea di investimento sociale nasce dunque con l’idea di accompagnare alla funzione tradizionale di protezione sociale dei sistemi di welfare, un approccio di tipo preventivo e life cycle, capace di proporre una visione diversa della spesa sociale, fino a spingersi alle identificazioni di futuri ritorni (al netto della loro chiara identificazione e misurabilità).

Sulla base di questa logica, se volessimo esemplificare in maniera un po’ approssimativa, l’investimento sull’infanzia attraverso nuovi asili, avrà un ritorno sull’occupazione dei genitori, così come quello in ambito sanitario – si  pensi ad un investimento sull’educazione alimentare – avrà un impatto sullo stato di salute generale di una data popolazione, in particolare con benefici sostanziali rispetto ad alcune cronicità (che rappresentano una considerevole voce di spesa in questo ambito).

Si parla di investimento sociale in quanto la spesa non viene intesa come un costo, bensì come una leva, un volano, cioè come un qualcosa che genererà un ritorno.

Il terzo ed ultimo punto che si può segnalare riguarda il fatto che la partita sull’Action Plan è ancora aperta, ed aperta resterà. Infatti, al di là del testo che è in fase di finalizzazione e rispetto al quale vale sempre la pena far sentire la propria voce finché non lo si approva formalmente, il Piano di Azione per l’Economia Sociale raccoglierà una serie di azioni che dovranno poi essere realizzate e – come si dice – portate a terra nei prossimi mesi. E sappiamo che queste fasi sono spesso decisive, perché è nei dettagli della implementazione che spesso si nascondono i fattori che determinano il successo o il fallimento di una iniziativa di policy.

Ascoltando gli interventi dei relatori che mi hanno preceduto, ho riflettuto sul fatto che la ricchezza di tutte le riflessioni emerse durante i dibattiti rappresenta un qualcosa che non possiamo tenere solo per noi, ma che deve essere condiviso.
Come si è già detto, nonostante i tempi stretti, l’Action Plan è ancora aperto e tale resterà in un certo modo. Per questo c’è un importante margine di azione. Per questo, l’invito che vorrei fare è quello di osare e di portare questo tipo di riflessione – che non è una riflessione meramente intellettuale, né tantomeno rappresenta la visione Italiana dell’Economia Sociale, bensì un modo di guardare le cose e scoprire insieme certi temi – anche all’interno del dibattito europeo.

Il mio invito quindi è quello partecipare in maniera intensa al dibattito europeo in quanto vi è una maturità in questo dibattito che ci permette di dialogare con chiunque.

Concludo dicendo qualcosa che vorrei non venisse mal interpretato, ma che ritengo importante per dare l’idea degli spazi di riflessione e azione che si aprono a partire da un rinnovato interesse del policymaker per l’Economia Sociale. La sostenibilità integrale – per potersi ritenere tale – deve essere ovunque, non appena un tema appartenente a qualche portfolio di competenze allocate ad uno specifico dipartimento o direzione generale. Tutti siamo chiamati a dare contenuto a questa espressione.

In questo senso, negli ultimi anni ci sono stati una serie di passi molto decisi da parte della Commissione Europea rispetto al tema della sostenibilità. Direi addirittura che – e qui chiedo di comprendere l’espressione un po’ schematica – ci sono più “Europe” quando si parla di sostenibilità. L’Europa resta una ovviamente, ma la sostenibilità è ormai tema che riguarda diversi e spesso anche distanti ambiti di governo.

Quando parliamo di sostenibilità facciamo riferimento ad un avvicinamento tra quelle che sono le politiche sociali e le politiche industriali, da sempre considerati come campi separati. Ne sono di esempio: la Transition Pathway Initiative (TPI), relativa agli ecosistemi industriali e all’economia di prossimità e sociale; la discussione sulla tassonomia sociale e InvestEU, una flagship initiative, che metteva a disposizione 4 miliardi di euro per fare leva fino a 50 miliardi sul Social Investment and Skills.

Tutte queste iniziative, che con l’arrivo della pandemia e successivamente con Next Generation sembrano di minor entità, in realtà restano fondamentali, perché ci mostrano chiaramente come l’Unione Europea si stia muovendo per riuscire a cogliere questo cambiamento.
Rispetto al tema del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, secondo me c’è una domanda fondamentale che riguarda non solo il PNRR ma anche molte iniziative simili, ovvero: “Qual è la nostra exit strategy?” – o meglio – “Finito il PNRR, che cosa vogliamo? Come immaginiamo il mondo nel quale vorremmo trovarci una volta che il PNRR avrà pienamente realizzato i propri obiettivi?”

È a partire da queste domande che ogni paese dovrebbe fare un percorso a ritroso per decidere come impostare la propria strategia di intervento. È un approccio che si usa spesso negli scacchi e che la teoria dei giochi definisce come backward-induction. Da risultato finale, l’ultima mossa vincente, si considerano tutte le possibili opzioni precedenti, fino a giungere all’oggi.

Legato a questo aspetto di metodo, emerge il tema della misurazione che – seppur fondamentale – corre oggi il rischio di diventare un “feticcio”. Tuttavia, il tema fondamentale è cosa vogliamo farne della misurazione di impatto. Forse l’alternativa che abbiamo davanti è tra Eros e Agape, ovvero riuscire a entrare in una logica finalistica (chissà escatologica?), per capire cosa vogliamo alla fine di questo processo.

Infatti, il PNRR italiano sicuramente rappresenta una grande opportunità a condizione che ci sia una chiara idea – oltre che del paese che si vuole dopo il PNRR – di come decidiamo di affrontare il tema del monitoraggio degli impatti generati. E questo è un tema delicato, soprattutto per la centralità che ha assunto e l’interesse che è andato acquistando negli ultimi anni.

Infatti, considerato che ognuno utilizza la propria metodologia per misurare gli impatti generati, siano essi attraverso iniziative di policy o investimenti privati, molte volte si è discusso sulla possibilità di introdurre degli standard relativi alla misurazione degli impatti; tuttavia, il processo di unicità ed univocità delle metodologie rispetto alle spiegazioni del processo migliore per misurare e monitorare gli impatti ancora non è avvenuto. Vi erano troppe metodologie e si è lavorato sugli standard. Il risultato è stato il proliferare di standard, così ci si trova punto a capo.
Secondo il mio punto di vista la questione centrale – più che la discussione metodologica su come misurare l’impatto, che è discussione scivolosa e spesso eterea – è quella di riuscire a mettere sul tavolo i dati.

Questo rappresenta la grande sfida, che se presa sul serio potrebbe anche spingere la finanza a muoversi seriamente secondo una logica – non so bene se integrale, integra o entrambe – più decisa e impegnata verso l’economia sociale.
D’altra parte, il tema della finanza di impatto l’ho sempre letto innanzitutto come un processo, come un’opportunità di reingegnerizzazione della spesa pubblica, e quindi – anche in virtù della sensibilità che abbiamo a livello europeo rispetto la necessità di ripensare lo Stato sociale e ancora più specificamente il contratto sociale che governa il nostro stare assieme – le considerazioni che faccio su impact investing sono ragionamenti simili a quelli che mi sentirei di fare sul PNRR.

In sintesi, direi che ci sono tre sfide essenziali che l’Economia Sociale è chiamata ad affrontare nei prossimi anni e rispetto le quali l’Action Plan potrebbe rappresentare un valido quadro di supporto. In primo luogo, passare dalla difesa di un settore alla proposta di una cultura dell’agire economico, senza timore di confrontarsi con ciò che oggi sembra essere una visione monolitica dell’economia e della società (sistemi nei quali ciascuno inevitabilmente massimizzerebbe egoisticamente la propria funzione utilità). In secondo luogo, farsi consapevoli che l’Economia Sociale vive una corresponsabilità rispetto la direzione che le transizioni (ambientale e digitale) debbono perseguire. In terzo luogo e da ultimo, è il tempo della maturità rispetto la sostanza del proprio agire: in un momento storico di crisi di legittimazione delle attuali istituzioni (Stato e mercato), non è sufficiente l’intenzione dell’impatto o il rispetto di una forma (organizzativa o giuridica), bensì è fondamentale poter indicare chiaramente l’impatto generato, non solo ex-post, ma anche nella fase di disegno della strategia di azione.

Insomma, l’Economia Sociale può trarre vantaggio dall’Action Plan per riportare al centro del dialogo pubblico e dell’agire economico la questione del valore creato. Per sé e per la società tutta.

 

Il contributo è pubblicato nel volume “GENERAZIONI. La sfida della Sostenibilità Integrale” che raccoglie tutte le relazioni e approfondisce i temi emersi in occasione della XXI edizione delle Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile.

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AICCON

AICCON è il Centro Studi promosso dall'Università di Bologna, dal movimento cooperativo e da numerose realtà, pubbliche e private, operanti nell'ambito dell’Economia Sociale, con sede presso la Scuola di Economia e Management di Forlì.

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