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Il tema della XXIV Edizione
LE REGOLE DEL GIOCO
Proposte di trasformazione per uno sviluppo integrale

Il gioco è la ricerca di un nesso fra l’originalità soggettiva e
l’accettazione di una regola

Bruno Munari

Rigenerare la speranza per uscire dall'inerzia

Nello scenario politico e socio-economico attuale, le istituzioni mostrano una grande debolezza e, in molti casi, un’incapacità di operare cambiamenti in grado di garantire una transizione sostenibile e inclusiva. Nelle fasi di transizione, come quella attuale, è essenziale che si crei un “clima contributivo”, poiché è compito di tutti attivarsi, partecipando e condividendo proposte utili. La capacità di un Paese di affrontare le sue crisi passa, infatti, dal ruolo “attivo e istituente” giocato dal Terzo Pilastro (R. Rajan) e dalla propensione a uscire da quella “anoressia del desiderio” che è alla base di un’inerzia spesso mortifera. In una fase caratterizzata da crisi e trasformazioni di carattere sistemico ed entropico (ossia di senso), sta maturando una consapevolezza sul fatto che le sfide che ci troviamo davanti non possano trovare soluzioni adeguate attraverso risposte individuali o pratiche che poggiano la loro certezza nel binomio “tecnologia-tecnocrazia”. Al contrario, l’unica strada per uscire da una posizione meramente difensiva è quella di scommettere su un agire corale caratterizzato da alleanze, collaborazioni e sperimentazioni capaci di ridisegnare il perimetro del “campo da gioco”. Nonostante non manchino esperienze e segnali di un futuro positivo nel presente, prevale una crescente rassegnazione e insicurezza che rende il nostro Paese, come ben fotografato dal Censis, una terra di “sonnambuli”. Un Paese che invecchia sempre più e che resta inerme davanti alle tante paure. Questa fotografia conferma che le transizioni che viviamo non sono neutre e non è pensabile affrontare questa fase con gli strumenti, le regole, i paradigmi e le priorità del ‘900.

Prima di tutto, occorre ricordare che la “leva” di ogni cambiamento è legata alla fiducia. La fiducia è quell’elemento che cambia la natura di una relazione e di un’istituzione, sia essa economica, sociale o istituzionale. La fiducia di fatto amplia la realtà, trasforma l’inevitabile in inatteso (J.M. Keynes) ed è la condizione affinché un “bene” possa essere condiviso.

La riduzione dello “stock” di fiducia è un problema enorme ed è all’origine del fallimento di molte policy, della crescita delle disuguaglianze e dei comportamenti opportunistici nelle scelte economiche. L’assenza di fiducia impedisce la costruzione del futuro ed è all’origine della visione che basa le scelte in una logica di breve periodo (corto-termismo). Solo la speranza è in grado di rompere l’inerzia, ma come diceva Cicely Saunders, “la speranza è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere”. Un messaggio che rappresenta un chiaro invito a “far accadere” ciò che desideriamo, mettendo in campo il soggetto nella sua integralità come portatore di bisogni e come “struttura di desiderio”.

Dalla diagnosi alla terapia

L’esperienza quotidiana ci restituisce nuovi paradossi: crescita senza sviluppo, contatti senza relazioni, comunanza senza comunità, benessere senza felicità, mercati senza democrazie, cura senza inclusione. Nuovi dilemmi che, come detto, postulano la cooperazione, ma che anche quando si realizza si trova di fronte a una difficoltà spesso insormontabile nell’agire il cambiamento che desideriamo.

La tensione alla trasformazione sociale infatti si infrange su un sistema che plasticamente assorbe e ripropone i propri limiti in forme inedite, più subdole e difficili da riconoscere. Una sensazione di impotenza che va curata e su cui è necessario agire.

Il problema non sta solo nel contrastare la rendita (economica, politica e sociale) nella sua incessante produzione di iniziative strumentali (che si propongono di cambiare tutto per poi non cambiare nulla), ma nel capire come l’attivismo, l’innovazione sociale, il mutualismo e la società civile possano effettivamente entrare nel campo da gioco con un ruolo riconosciuto e riconoscibile. La storia italiana ci offre preziose lezioni su come il cambiamento possa avvenire dall’interno del tessuto sociale. Il riformismo sociale e la pressione dalla base hanno generato istituzioni nuove e vitali, riconosciute poi normativamente per il loro contributo al bene comune. Oggi, non mancano la ricchezza di pratiche (nel senso di MacIntyre), la spinta dal basso di una moltitudine di enti terzi che raccontano nuovi modelli di welfare e di economia, né la strumentazione normativa e amministrativa (mai così ricca e dettagliata).

Ciò che sembra mancare è un metodo per tradurre queste pratiche in azioni istituzionali. Per chiarire il punto di primaria rilevanza. Le virtù sono esercitate entro le pratiche (di vita, di azione, di sguardo) e hanno a che vedere con le motivazioni intrinseche di chi opera. Le regole del gioco (istituzioni) invece hanno a che vedere con le strutture di potere che governano la distribuzione di benefici e risorse. La loro funzione primaria è quella di servire quali sostenitrici delle pratiche, le quali non possono durare a lungo senza il sostegno di istituzioni congruenti.

(Un solo esempio: la medicina è una pratica; l’ospedale è un’istituzione. La prima, inventata dai greci; la seconda, dalle popolazioni toscane del XIII secolo). Ebbene, è oggi giunto il tempo di occuparci delle istituzioni, pur continuando ad alimentare le pratiche.

Un esempio di quel che accade quando pratiche e istituzioni non sono congruenti tra loro è osservabile nelle trasformazioni che toccano il lavoro. Lo squarcio pandemico ci ha ricordato come il lavoro sia caratterizzato da due dimensioni, acquisitiva e espressiva. Con la prima la persona acquisisce le risorse economiche di cui ha necessità per condurre una vita umana (principio del lavoro giusto). La dimensione espressiva invece fa riferimento al fatto che il soggetto esprime il proprio potenziale di vita e realizza la sua fioritura umana con il lavoro (principio del lavoro dignitoso). Due elementi co-essenziali che ancora non trovano armonia, svuotando così il senso dell’agire, desertificando il valore di molte professioni legate alla cura e depotenziando la competitività e inclusività del sistema socio-economico. La sfida di un lavoro giusto e dignitoso non si risolve, infatti, solo nel giusto compenso, ma necessita di istituzioni che valorizzino in tutta la propria azione (dal procurement alla valutazione) il cittadino-lavoratore: identità che per A. Smith era alla base della “Ricchezza delle Nazioni” e che oggi è troppo spesso sostituita dal cittadino-consumatore. Questa sfida, come quelle legate al digitale, alla sostenibilità ambientale e alla giustizia sociale, necessita di istituzioni e regole diverse. “La qualità di una società è connessa alle regole create e applicate dallo Stato e dai cittadini nel loro insieme” – scrivono Acemoglu e Robinson. Serve una teoria nuova, per agire sulle cause delle disuguaglianze, una prospettiva che non comprenda solo la sfera economica ma che includa quella politica e civile.

La realtà ci interpella: è ora di passare dalla diagnosi alla terapia. Non è più sufficiente attivare principi e pratiche; occorre ancorarli a obiettivi di cambiamento istituzionale, mettendo mano alle cause che sono all’origine delle crescenti disuguaglianze e sfiducia. Occorre tornare a occuparsi non solo delle soluzioni, ma anche delle istituzioni. È necessario guardare ai problemi non solo nelle conseguenze, ma nei meccanismi generativi che li hanno alimentati.

Ripartire dalle regole del gioco

L’ecosistema che promuove l’economia civile deve essere consapevole che la partita va giocata con l’obiettivo di incidere e modificare le regole del gioco:

non basta più svolgere un’azione da “minoranza profetica”, serve il coraggio e l’ambizione di uscire dalla nicchia. Il cambiamento istituzionale diventa perciò il nuovo orizzonte per misurare la trasformazione sociale.

Una prospettiva che supera il riduzionismo che tende ad assimilare il cambiamento desiderato alla sostenibilità certificata dagli indicatori ESG. La dimensione trasformativa, infatti, non si celebra appena nella conformità alle metriche e nella produzione di normative giuridiche, ma nella capacità di modificare l’esistente promuovendo nuove istituzioni ed economie più sociali, come ci ricorda la raccomandazione europea che sta impegnando il nostro paese nel redigere entro l’autunno del 2025 il piano italiano sull’economia sociale.

Tale transizione non può essere però guidata da obiettivi settoriali, ma da missioni convintamente trasformative, orientate verso una reale prospettiva di “capacitazione” (A. Sen), ovvero uno sviluppo pensato per ampliare le possibilità—sia sociali che economiche—dei cittadini e ridurre, di conseguenza, i livelli di disuguaglianza personali e territoriali. Non possiamo più tacere: la patologia insita nella natura estrattiva di molte istituzioni va “corretta” (cum regere, reggere insieme, tenere sorretto insieme), ridisegnando tanto i mezzi quanto i fini che utilizziamo per agire su welfare, cura, educazione e innovazione.

Perseguire l’innovazione sociale senza innovarsi potenzia il misoneismo e la rigidità di un sistema. Concentrare l’enfasi solo sulle risorse e sulle soluzioni ci ha fatto dimenticare che “le regole del gioco” sono all’origine tanto dei “vizi” quanto delle “virtù” del nostro tempo.

In una società, il prevalere di regole e istituzioni che “cementano” la rendita è alla base di una prospettiva parassitaria, mentre la presenza di regole e istituzioni che alimentano incentivi alla cooperazione, includono e condividono equamente il valore aggiunto, è in grado di favorire non solo uno sviluppo più sostenibile ma anche una trasformazione sociale desiderabile. Tale precisazione ci permette di cogliere il senso vero della nozione di Amministrazione Condivisa (espressione che è giusto ricordare appare per la prima volta nel saggio di G. Arena del 1997). La perdurante confusione di pensiero tra le tre versioni del principio di sussidiarietà è all’origine delle difficoltà di implementazione di questa vera e propria innovazione istituzionale.  A tal fine occorre ricordare la differenza sostanziale fra le tre versioni della sussidiarietà. Quella verticale chiama in causa la regola di distribuzione della sovranità tra i diversi livelli di governo (in buona sostanza, si tratta del decentramento politico-amministrativo); l’orizzontale, invece, ha a che vedere con la regola di attribuzione di compiti operativi a soggetti diversi da quelli della Pubblica Amministrazione, realizzando così una qualche cessione di sovranità; la circolare, invece, ha a che fare con la condivisione di sovranità. Se la sussidiarietà in senso verticale dice del rifiuto del centralismo e del dirigismo e parla dunque a favore dell’innovazione amministrativa, la sussidiarietà in senso orizzontale attiene piuttosto al criterio di riparto delle funzioni pubbliche tra enti pubblici e corpi intermedi della società civile. La sussidiarietà   circolare, prevede un diverso “schema di gioco”: i tre soggetti devono interagire tra loro in modo sistematico, non sporadico per co-produrre soluzioni “fra pari” (pur riconoscendo la diversità dei ruoli delle identità). Includere potenziare e valorizzare adeguatamente la capacità espressiva e imprenditoriale della comunità (”community organizing”) non deve essere interpretata e proposta come una strategia rivendicativa, ma come il metodo per ri-articolare in modo nuovo le relazioni tra Stato, Mercato e Comunità.

Istituzioni e alleanze a prova di futuro

Siamo chiamati a stimolare un'”innovazione di rottura” (C. M. Christensen), ovvero un ripensamento sostanziale e non appena formale dei paradigmi di sviluppo economico, delle soluzioni per combattere le disuguaglianze e delle strategie per costruire il futuro.

Il futuro è un prodotto “comune”, frutto della responsabilizzazione e partecipazione di tutti gli attori sociali, la cui guida e costruzione non può venire delegata a pochi.

Il vero rischio è che il presente ingabbi il futuro, non lo faccia fiorire nel timore dell’imprevisto. L’obiettivo deve invece diventare quello di creare organizzazioni capaci di adattarsi, in maniera trasformativa, a qualcosa che non è ancora stato predetto e immaginato, ovvero convertendo la paradossalità di tale richiesta in un motore di innovazione.

Chiamare in causa le “regole del gioco” significa perciò, dopo un decennio di sperimentazioni, aprire il tempo dell’innovazione sociale intesa non solo come “soluzione nuova”, ma anche come “istituzione nuova”.

Come ci ricorda il premio Nobel Douglas North: “Le istituzioni sono le regole del gioco di una società o, più formalmente, i vincoli che gli uomini hanno definito per disciplinare i loro rapporti; di conseguenza danno forma agli incentivi che sono alla base dello scambio, sia che si tratti di scambio politico, sociale o economico. Il cambiamento istituzionale influenza l’evoluzione di una società nel tempo ed è la chiave di volta per comprendere la storia […]”.

Le Giornate di Bertinoro, dopo aver approfondito nel 2022 il valore del “Riconoscersi” e rilanciato nel 2023 la necessità di recuperare il senso dell’azione ossia “La sostanza delle organizzazioni”, si propongono l’11 e il 12 ottobre 2024 di rendere pubblica l’esigenza di “cambiare le regole del gioco”, a partire dall’affermazione che le istituzioni (le regole del gioco) sono spazi morali e non già neutri, come una certa teorizzazione socio-economica per troppo tempo ha fatto credere. Rifletteremo e condivideremo proposte che nascono da una visione antropologica positiva e da un paradigma economico ancorato al valore irriducibile del civile.

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AICCON

AICCON è il Centro Studi promosso dall'Università di Bologna, dal movimento cooperativo e da numerose realtà, pubbliche e private, operanti nell'ambito dell’Economia Sociale, con sede presso la Scuola di Economia e Management di Forlì.

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