Il tema della XXII Edizione
RICONOSCERSI
Includere per trasformare l’esistente
Vi è nella sete di stima un desiderio di esistere non attraverso l’affermazione vitale di se stessi, ma attraverso la grazia del riconoscimento altrui.
Paul Ricoeur
Riconoscersi
In un momento storico come quello attuale, contrassegnato dall’affermazione di crisi di carattere sistemico che rimettono in discussione i tradizionali modelli di sviluppo, sembra emergere una rinnovata consapevolezza di come le sfide che ci troviamo davanti, non possano trovare soluzioni adeguate attraverso la messa in campo di risposte individuali o agite da singoli attori. Al contrario, l’unica strada per uscire da una posizione meramente difensiva e formulare un nuovo ideale di futuro, è quella di scommettere su un agire corale caratterizzato da alleanze, collaborazioni e sperimentazioni inedite. Allo stesso tempo però, qualunque gioco di squadra si regge su una premessa dalla quale è impossibile prescindere, ovvero l’esistenza di un mutuo riconoscimento tra sé e l’altro.
È il riconoscere una particolare forma di legame con l’altro che motiva l’agire, legame che in primo luogo si manifesta in ciò che possiamo definire interdipendenza. Allearsi e collaborare diventa possibile solo quando riconosciamo di essere legati all’altro in virtù di una relazione di interdipendenza: il mio futuro dipende dal futuro dell’altro. E qui è importante precisare subito due aspetti: il primo è che se guardiamo all’attualità il cosiddetto “altro” non è solo “l’altra persona”, ma può essere l’ambiente naturale, oppure un’altra nazione, o ancora un’altra popolazione o un altro attore sociale, in estrema sintesi “l’altro” è qualunque alterità con cui si ha un legame di interdipendenza. Il secondo muove dall’assunto secondo il quale tale legame non si riduce ad un rapporto meramente pietistico o solidaristico, ma si sviluppa secondo un principio di reciprocità. In natura i rapporti di simbiosi tra esseri viventi possono infatti assumere tre forme: il parassitismo, il commensalismo e il mutualismo, e solo quest’ultimo è quello che descrive uno stare in relazione secondo la logica del reciproco beneficio.
Platone si è servito del termine thimos (riconoscimento) per indicare che il bisogno primario dell’essere umano, prima ancora del bisogno di nutrimento, è quello di essere riconosciuto e di riconoscere l’altro. Il riconoscimento postula la reciprocità. Due sono però le forme che il thimos può assumere: quella della megalothimia e quello della isothimia. Se quest’ultimo è il bisogno di essere riconosciuti come eguali agli altri, la prima è la volontà di essere riconosciuti come superiori agli altri. Ebbene è la megalothimia – una tendenza che negli ultimi decenni ha ripreso servizio anche in Occidente – uno dei principali fattori causali della guerra in corso, oltre che dei tanti market and government failures.
Non si può dunque cooperare (condividendo mezzi e fini) senza riconoscersi, non si può generare impatto senza cooperare. Una prospettiva, quella del mutuo riconoscimento, che trova nella sussidiarietà circolare il metodo più adeguato per declinare l’azione pubblica: un’azione non solo promossa attraverso il contributo della comunità, ma insieme ad essa. La condivisione delle politiche ed i relativi processi di co-creazione postulano infatti il “riconoscersi”. Ecco allora che mettere al centro della XXII edizione delle Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile questo tema apparentemente così astratto, significa in realtà interrogarsi su quello che è il meccanismo alla base di qualunque processo trasformativo. Il riconoscimento infatti è ciò che riesce a cambiare la natura del legame sociale alimentando soluzioni plurali e trasformative inerenti la cura, l’economia, la sostenibilità e la socialità.
Riconoscersi per includere. Il valore della governance nella “società del rischio”
Di fronte ad un futuro come quello odierno, dal quale si origina un senso di profonda incertezza che spesso finisce per paralizzare persone e organizzazioni, il riconoscersi diventa il punto di partenza per rispondere alle due maggiori esigenze evocate dalle collettività: la protezione e il cambiamento.
Come narra Polanyi ne La grande trasformazione (1944), gli sconvolgimenti provocati dalle prime due rivoluzioni industriali sono alla base del “doppio movimento”: da un lato, quello che tende all’estensione massima del mercato; dall’altro, quello che mira alla protezione dal mercato. I due movimenti sono guidati da altrettanti principi: il principio di libertà e quello della protezione sociale. Come osserva Nancy Fraser, a partire dagli anni Ottanta si è affermato un terzo principio, che si è aggiunto a quelli precedenti: il principio di emancipazione. È il bisogno di riconoscimento (il thimos di Platone) che tende a prevalere sul desiderio di libertà. Si rivendica l’accesso, piuttosto che la protezione. Ci troviamo, oggi, di fronte ad un trilemma politico, dal momento che ciascun principio ha bisogno dell’alleanza con uno degli altri due per affermarsi. Tre sono pertanto le tipologie di convergenza che possono darsi nella pratica ed il Terzo settore assume dunque il ruolo strategico di catalizzatore di tali nuove alleanze. Quello che bisogna chiedersi perciò è cosa fare per fronteggiare questa crescente richiesta di riconoscimento? Il bivio che si apre di fronte è quello che vede da un lato la strada che porta a rincorrere la creazione di sempre nuovi dispositivi di tutela basati su un impianto ancora prettamente assistenziale e sulla logica della “presa in cura”, mentre dall’altro si apre la strada che intende rispondere all’incertezza con l’accettazione e l’assunzione del rischio secondo però la logica del “avere cura”, che implica uno sforzo volto alla capacitazione, all’imprenditorialità e all’attivazione della persona.
Occorre uscire dalla dicotomia assicurati—assistiti. In caso contrario il rischio è quello di adottare un sistema di servizi dove la cura è ridotta a prestazione, quando invece sempre di più la domanda di partenza che dovrebbe tradurre l’intenzione di mettere la persona al centro dovrebbe essere: cosa è per te una buona vita? Allo stesso modo le trasformazioni economiche passano necessariamente da nuove forme di riconoscimento (neo-mutualismo) capaci di ridisegnare il campo da gioco, l’arena dentro cui economia, politica e società operano. Più una crisi è profonda e più la domanda sul cambiamento atteso e agito deve essere radicale. Una radicalità però da perseguire “insieme”, un processo che non può essere appannaggio di fughe solitarie e separate (il Terzo settore da una parte, l’impresa for profit dall’altra; il mercato da un lato e la comunità dall’altro), perché la crescente vulnerabilità e la prospettiva di uno sviluppo più inclusivo, richiedono di mettere a valore una maggiore e più autentica interdipendenza.
In che modo dunque rendere questo riconoscimento effettivo senza farne un processo meramente retorico, come osservato negli ultimi anni nei confronti del Terzo settore verso il quale si è assistito ad un riconoscimento spesso strumentale? In primis occorre evitare il rischio di ridurlo ad un’azione formale incapace di modificare la “governance delle decisioni” e le scelte economiche. In secondo luogo occorre alimentare il protagonismo di ciò che emerge dal basso, dai luoghi e dal Terzo Pilastro, ovvero dalla comunità. Un protagonismo che non va appena rivendicato, ma messo a disposizione per la valorizzazione dell’intelligenza collettiva e la costruzione di nuove geografie del valore.
Le transizioni non sono neutrali. La valenza trasformativa del Terzo settore
Interrogarsi sulle traiettorie di cambiamento che interesseranno le collettività nei prossimi anni, unitamente al protagonismo delle comunità, permette poi di osservare come le recenti crisi indichino l’inizio di una nuova e lunga transizione. Il pericolo maggiore riguarda l’ignorare il fatto che le “transizioni” non sono mai neutrali. Esse possono infatti portare ad un effettivo miglioramento delle condizioni di vita di molte persone, così come peggiorare ulteriormente le criticità sociali e alimentare le disuguaglianze già in essere. Nel 1962 Gunter Anders pubblica “L’uomo è antiquato”, un saggio che ci riguarda molto da vicino. L’idea (anticipatrice dei tempi) che vi si trova è che l’essere umano è tale soltanto se qualcuno lo chiama in causa, se si preoccupa di lui. Diversamente dal cartesiano “cogito, ergo sum”, quel che si rende necessario diventa affermare: “Cogitor, ergo sum” (mi si pensa, dunque sono).
Una prospettiva radicale che richiede una visione antropologica ed una tensione inclusiva nel delineare adeguate forme di governance per accompagnare le transizioni e combattere in maniere radicale e profonda le disuguaglianze. Su questo fronte il principio del mutuo riconoscimento trova tre principali ambiti di sperimentazione che permettono di connotare le trasformazioni in atto, evitando riduzionismi funzionalistici e neutralità tecnicistiche.
- Il primo riguarda l’adozione del modello democratico e deliberativo per la presa delle decisioni e la definizione delle priorità. Democraticità che da un lato costituisce una rivendicazione etica in risposta alla logica del conflitto e al sentimento di intolleranza che matura in seno alle “comunità rancorose”; dall’altro permette di evidenziare un ulteriore protagonismo dei soggetti dell’Economia Civile in quanto sono proprio essi ad incarnare l’esempio più virtuoso della concreta possibilità di coniugare democraticità organizzativa, finalità mutualistica e solidaristica delle proprie azioni e realizzazione di attività economiche che garantiscono sostenibilità ed inclusione.
- Il secondo riguarda la presenza di un Terzo settore capace di allestire contesti abilitanti, costruire infrastrutture sociali e disegnare economie secondo uno spirito di neo-mutualismo, giocando un ruolo strategico in questa fase cosiddetta “di ripartenza” non solamente in termini di “braccio operativo” per la messa a terra delle nuove policy, quanto anche in termini di luogo di pensiero per la definizione di proposte operative che ridisegnino gli assetti abituali tra gli attori territoriali. Il recente Action Plan for the Social Economy realizzato dall’Unione Europea descrive bene le potenzialità del settore tanto in termini di prospettive sulla creazione di valore, quanto in termini di prospettive sulla possibilità della nascita di nuovi ecosistemi per il governo delle transizioni.
- Il terzo invece riguarda l’estrema urgenza di ridare al lavoro il proprio ruolo di attività volta alla piena realizzazione della persona rendendolo così allo stesso tempo giusto (cioè capace di offrire il potere d’acquisto necessario per provvedere alle proprie necessità) e decente (cioè capace di portare ad piena fioritura umana). Quando infatti il lavoro non è più espressione della persona, perchè si non comprende più il senso di ciò che si sta facendo, diventa schiavitù.
Come è stato per le origini dell’età moderna, allo stesso modo oggi, da più voci (si pensi ad Alec Ross, consigliere di Obama, Minouche Shafik, Direttrice della London School of Economics, a Jeremy Rifkin, economista di fama mondiale)[1] ritorna il desiderio di interrogarsi su quali debbano essere i presupposti che fungano da fondamenta per la futura comunità umana e quale tipo di “contratto sociale” debba riconoscerli e garantirli. A ben guardare però, forse oggi risulta più utile ragionare non tanto in termini di “contratto” quanto piuttosto in termini di “patto sociale”. La premessa infatti per la costruzione di risposte corali alle criticità sistemiche non può basarsi su codificazioni degli assetti relazionali tra gli attori eccessivamente rigide e formali. Il bivio è tra uno scenario caratterizzato da profonde tensioni sociali dove a governare sono gruppi di interesse miranti unicamente alla ricchezza personale, e uno scenario di prosperità inclusiva dove il futuro è il prodotto di uno sforzo collettivo. L’amministrazione condivisa, la rigenerazione a matrice comunitaria, le nuove economie che assumo il digitale e la prossimità come fattori abilitanti per alimentare impatto sociale e le infrastrutture sociali che stanno nascendo per ridisegnare il welfare su base territoriale, rappresentano i cantieri più rilevanti su cui impegnarsi e convincersi che un diverso ordine sociale è necessario per poter passare dalla “diagnosi”, alla concretezza della “terapia”.
[1] Minouche Shafik, Quello che ci unisce. Un nuovo contratto sociale per il XXI secolo, Jeremy Rifkin, Un Green New Deal globale. Il crollo della civiltà dei combustibili fossili entro il 2028 e l’audace piano economico per salvare la terra, Alec Ross, I furiosi anni venti. La guerra fra Stati, aziende e persone per un nuovo contratto sociale,
La necessità di ricostruire un nuovo spazio politico ed economico
Se è vero poi che il Terzo settore deve avere il coraggio di proporsi come “asset-holder” ossia “portatore di risorse” e non solo come “need-holder”, ossia portatore di bisogni, è altrettanto indispensabile che la politica maturi la consapevolezza che la vita democratica non riguarda solo le procedure, ma anche la definizione di uno spazio aperto (espressivamente deliberativo) che non può fare a meno di legami sociali, cittadinanza attiva, imprenditorialità sociale e mutualismo.
Solo aprendosi a reali processi partecipativi e sperimentando nuove governance territoriali, le risorse del PNRR saranno in grado di trasformare la spesa pubblica (di cui una gran parte in forma di debito) in leva per uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Diventa cruciale aprire una nuova “fase contributiva” dove cittadini, lavoratori, imprese e istituzioni possano essere considerati soggetti protagonisti della ripartenza. Le nostre società hanno la necessità, più ancora che nel passato, di un Terzo settore forte e soprattutto pienamente autonomo dagli altri due settori. Questa evidenza emerge dal fatto che la condizione umana di oggi è connotata dalla transizione, iniziata mezzo secolo fa dall’individualismo di appartenenza, all’individualismo di singolarità. Questa metamorfosi dell’individuo nel “singolo” va ponendo problemi inediti, primo fra tutti la contraddizione pragmatica secondo cui il singolarismo, mentre presuppone qualcosa di comune, vuole prendere le distanze da questa comunanza perché giudicata opprimente, omologante.
Non è dunque difficile intuire le devastanti conseguenze pratiche di ordine sia politico sia socio-economico che ne deriverebbero se non si trova il modo di incanalare su un diverso binario la nuova configurazione antropologica ed etica del sé. Per riuscirci occorre però fare uno sforzo collettivo invitando la politica a non farsi guidare dal corto-termismo e dal paternalismo, stimolandola a riconnettersi con l’esperienza reale delle comunità. Da qui l’emergere di domande che non è più possibile rimandare: come affiancare le istituzioni pubbliche nello sviluppo di modalità decisionali in grado di tenere insieme l’orizzonte di breve con quello di lungo periodo? Quali tipologie di governance si rendono necessarie per accompagnare e governare le grandi transizioni? Come alimentare una normatività giuridica con una visione antropologica positiva? Per immaginare nuove forme del vivere insieme, diventa allora essenziale assumersi il rischio di mettere in discussione gli assunti sui quali il vivere moderno, quantomeno in Occidente, è venuto a formarsi con la consapevolezza che proprio tale scelta rappresenta l’occasione migliore per far cadere quei tabù che tutt’ora vogliono convincere dell’impossibilità del cambiamento.