Intervista di Andrea Di Turi a Paolo Venturi per Right Hub
Il 9-10 ottobre 2015 si terrà la XV edizione delle Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile, uno degli appuntamenti fondamentali dell’anno per l’economia sociale. A organizzarle è Aiccon, il Centro studi dell’Università di Bologna per la promozione della cultura e della cooperazione nel non profit. Paolo Venturi, direttore di Aiccon, presenta su Right Hub i temi dell’edizione 2015 ma soprattutto li contestualizza nella fase di profonda trasformazione che l’impresa sociale e il non profit stanno vivendo.
Su cosa ruoteranno le #gdb2015?
Il tema di quest’anno (“L’economia della coesione nell’era della vulnerabilità”) è particolarmente interessante. Perché oggi coesione e vulnerabilità non sono più declinate solo in ottica redistributiva, bensì all’interno dei modelli produttivi. La coesione, cioè, diventa antidoto alla vulnerabilità se viene integrata in un modo diverso di produrre. L’economia sociale riesce a fare questo, ad abbinare ai beni tradizionali i beni relazionali. La sfida è fare dell’economia della coesione una policy.
I processi in atto stanno andando in quella direzione?
L’impresa sociale sta passando da una dimensione istituzionale a una paradigmatica: è il nuovo paradigma per produrre valore. Grazie alla sua capacità di combinare dimensione commerciale, pubblica e sociale.
C’è il rischio, in questo, di una perdita d’identità?
L’identità non viene neutralizzata in questi processi, al contrario viene rigenerata attraverso un percorso d’innovazione. Si tenga presente che l’identità delle imprese sociali oggi è sotto attacco di due isomorfismi: alcune stanno diventando simili alla Pubblica amministrazione, altre stanno assumendo unicamente la dimensione di efficienza, mercatista. La capacità di ricombinare i fattori, di ibridarsi, è un antidoto a tutto ciò.
Al Sewf 2015 l’economia sociale italiana ha incontrato quella degli altri Paesi del mondo. Quali, a suo avviso, i messaggi principali scaturiti da questo incontro?
L’Italia ha una storia di cooperazione sociale unica, ma anche per noi è arrivato un momento di passaggio. Che significa innanzitutto evitare una visione antagonista rispetto a innovazione e cambiamento. Questo è ciò che si è respirato al Sewf: le organizzazioni venute in Italia dal resto del mondo vivono una condizione di grandissima apertura, che non significa non essere convinti della propria identità ma, a partire da quella, aprirsi al confronto.
A livello di ecosistema dell’impresa sociale com’è messa l’Italia?
Anche nella costruzione degli ecosistemi questa condizione di apertura ha conseguenze. Altri Paesi riescono più facilmente a costruirli perché le imprese sociali vanno più alla ricerca di relazioni. Ed è la combinazione di queste relazioni, stratificata, che dà forma a un ecosistema. Mi ha colpito il caso di Taiwan, dove la creazione dell’ecosistema è stata favorita dalla deregulation, che è l’inizio di un’apertura di campo affinché i soggetti possano iniziare a muoversi, a entrare in relazione. Poi, ovvio, arriva il momento della regolamentazione. Ma fino a quando non spingeremo di più, molto di più, su un approccio imprenditoriale all’impresa sociale, certi elementi dell’ecosistema continueranno a fare fatica a prendere forma.
Può fare un esempio?
Prendiamo la finanza per l’impresa sociale: non è che ce n’è poca, il problema è che ce n’è troppa rispetto alla scarsa domanda. Cioè non abbiamo costruito ancora dei veicoli capaci di assorbire, incorporare le potenzialità delle risorse finanziarie che oggi possono essere messe a disposizione.
Quanto è determinante un ecosistema forte per il futuro dell’impresa sociale?
Occorre premettere una cosa: sta enormemente crescendo la presenza di organizzazioni for profit nei settori del sociale, che vivono una sorta di “rampante privatizzazione”. Solo un dato: in Emilia-Romagna, nell’assistenza sociale residenziale, dal 2008 al 2013 il profit è cresciuto del 39%, le cooperative sociali del 15%. Occorre costruire risposte a questi bisogni fondate su modelli di organizzazioni che combinano dimensione imprenditoriale, pubblica e sociale. Senza un ecosistema forte, il rischio è che questo spazio sia fagocitato da altri. L’ecosistema serve per dare al non profit la possibilità di giocarsi fino in fondo questa partita imprenditoriale, cosa che oggi non può fare. Dobbiamo permettere a una comunità di auto-organizzarsi e di farsi impresa per rispondere ai bisogni che esprime.
Fonte: Right Hub