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Articolo di Paolo Venturi pubblicato sul numero di agosto di Vita

 

Avanzare, “alzare l’asticella” postula sempre una fatica, un cambiamento che nel Terzo settore non può che partire dal recuperare una nuova visione. L’incapacità ad innovare, infatti, spesso deriva dall’incapacità di assumere una diversa prospettiva dei problemi. Una prospettiva nuova non significa “nuovista”, bensì “originale” cioè fedele all’origine. In questo senso riflettere sul valore sociale del non profit, in un periodo di cambiamenti strutturali sul fronte della domanda e dell’offerta, equivale proprio a recuperare quella visione “olistica” del valore, quella che ha dato origine alle prime forme di finanza, agli ospedali, alle scuole, alle università. Significa, in altre parole, recuperare una visione capace di superare quell’idea ridotta di sociale, che nel corso degli anni si è insinuata tanto nelle istituzioni quanto nell’economia.

La causa principale di questa “riduzione” del concetto di valore, sta nell’aver escluso il “not for profit” dal paradigma dello sviluppo affidandogli un posto additivo se non quando emergenziale.  Slegare il non profit dal tema dello sviluppo ha alimentato e diffuso l’irragionevole credenza che l’unica forma di valore sia quello dell’impresa profittevole (for profit), cioè quella che genera profitto, recidendo così il nesso fra valore sociale e valore economico. In tal modo, nel tempo si è andata consolidando l’ideologia secondo cui il valore sociale non sia profittevole.

Sappiamo tutti che questa è una gigantesca falsità. Non solo perché, storicamente, il non profit è nel Dna di molte istituzioni economiche e sociali, ma perché la ricerca e l’esperienza quotidiana oggi ci restituiscono l’evidenza quantitativa di un valore economico straordinario.

L’obiezione di molti è che “è misurabile ciò che è tangibile” e il non profit proprio perché “intangibile” non può essere “pesato”. Anche questa è una falsità: siamo infatti  in grado di mettere a bilancio il valore di un brand, l’avviamento di un’impresa, la sua reputazione e il suo specifico know how, ma non siamo “ancora”  in condizione di misurare il Valore aggiunto prodotto dal non profit, cioè da quella “piccola porzione” di più di 300mila organizzazioni che occupa 1 milione di addetti e quasi 5 milioni di volontari…

La prima innovazione risiede perciò nel prendere consapevolezza del cambiamento delle modalità di produzione di valore. Il valore sociale non è un’esternalità (un effetto) ma  rappresenta  un input (meccanismo generativo), sia per la competitività dell’impresa (basti pensare alla Shared Value Theory) sia del nuovo agire della Pubblica amministrazione (esempio, l’Open Government, la Co-produzione, le pratiche di Amministrazione Condivisa).

La sola presenza del non profit nei territori costituisce una proxy dello sviluppo. Basti pensare al suo contributo al Pil, che nel 2011 era pari al 3,4% (fonte: Istat), piuttosto che al ruolo che gioca in termini di coesione sociale: ad esempio, leggendo il dato sull’impiego di risorse umane del non profit e la ricchezza prodotta annualmente dal territorio ne emerge una forte correlazione positiva (indice di Bravais-Pearson pari a 0,87; fonte: Unioncamere, 2014). Per non parlare del contributo in termini di legalità dei territori: la presenza del non profit e il tasso di criminalità dei territori sono, in questo caso, inversamente correlati (fonte: Unioncamere, 2014) con conseguenze positive in termini sia di sviluppo umano sia di competitività delle imprese e, più in generale, dei territori.

Rinunciare a dare un’espressività economica al sociale nella sua valenza donativa, di advocacy, erogativa e produttiva, significa togliere un pezzo di valore alla collettività,  e questo non possiamo permettercelo. Abbiamo misurato la felicità (Gross national happiness), la fiducia (capitale sociale), la capacitazione (capability), il benessere (Bes): ora è il momento di misurare ossia di dare peso e valore economico al sociale generato dal non profit. Ma il Terzo settore è pronto a convergere verso questo comune obiettivo?

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di agosto di VITA

AICCON

AICCON è il Centro Studi promosso dall'Università di Bologna, dal movimento cooperativo e da numerose realtà, pubbliche e private, operanti nell'ambito dell’Economia Sociale, con sede presso la Scuola di Economia e Management di Forlì.

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