Il professor Ezio Manzini abita ad Ambra, piccola frazione di Buci ne, provincia di Arezzo. Un pugno di case, più o meno mille abitanti. È un dato, questo, molto importante nel suo curriculum professionale. Perché quel paese dal nome bellissimo per Manzini è il terreno di verifica delle sue teorie.
Manzini è uno dei maggiori studiosi italiani e mondiali di design per la sostenibilità, materia a cui ha dedicato un libro molto importante pubblicato dal Mit nel 2015, Design, When Everybody Designs. An Introduction to Design for Social Innovation («Una grande visione che incoraggia chi si sta impegnando nella ridefinizione delle logiche dell’innovazione cercandone il senso», lo ha definito Luca De Biase). Insegna al Politecnico di Milano e sarà tra i protagonisti della prossima edizione delle Giornate di Bertinoro, che si terranno il 14 e 15 ottobre e che sono dedicate a un tema che decisamente gli è congeniale: “Da spazi a luoghi. Proposte per una nuova ecologia dello sviluppo”.
Professore, partiamo dunque dalla teoria…
La riassumo in termini molto semplici: perché uno spazio diventi un luogo, occorre che in quello spazio avvengano delle relazioni. O come mi piace dire, che avvengano conversazioni tra le persone. Era vero 10mila anni fa ed è vero anche oggi. La novità oggi è che sono enormemente cresciute le relazioni che non hanno più a che fare con degli spazi specifici. E quindi sono relazioni che non creano luoghi. Ma se questo è
il trend, c’è pure un contro trend.
E qual è?
È quello determinato dall’innovazione sociale. Come ho scritto nel mio libro, l’innovazione sociale genera conversazioni che si svolgono fra vari attori sociali tutti interessati a raggiungere lo stesso risultato (per esempio risolvere un problema o aprire una nuova possibilità). E che seguono un percorso innovativo per ottenerlo, rompendo con i modi consueti di pensare e fare le cose. È una nuova modalità di conversazioni collaborative.
Può farci un esempio?
Il più evidente e immediato è quello che riguarda il sistema agroalimentare. È vero che esiste una linea dominante regolata dall’agroindustria, ma in questi anni si è fatta strada una forma di innovazione alternativa che sta conquistando sempre più spazio. È l’agricoltura di prossimità che sta creando anche molta occupazione per i giovani e che soprattutto dimostra come da dinamiche del passato possano scaturire modelli per il futuro. È un’agricoltura che restituisce senso agli spazi, in quanto determina un ecosistema di relazioni tra le persone in luoghi specifici. Nel passato dinamiche come queste producevano contesti chiusi. Oggi invece le persone che agiscono queste dinamiche non si sentono separate dal mondo. L’offerta di questa innovazione è dinamica, non c’è un confine tra il dentro e il fuori. Un po’ come succede ad Ambra.
Il suo paese. Ci spieghi…
Non ha caratteristiche speciali. Lì in tanti, come me, pendolarizzano per ragioni di lavoro. Ma in quel paese le persone hanno sviluppato una capacità progettuale che davvero fa di quello spazio un luogo. Io stesso ad esempio partecipo con molto piacere alla filarmonica. La Pro Loco è molto attiva. In altre frazioni vicine non accade nulla di tutto questo. Perché le persone non hanno guizzi progettuali e nessuno neppure le stimola.
Un’ultima domanda. E il design in tutto questo cosa c’entra?
Il design c’entra nella sua accezione di “design esperto”: proprio perché tutti progettano, diventa utile e necessario che ci sia qualcuno che li aiuti a farlo. Che disponga cioè di strumenti culturali e pratici che possano integrare e promuovere le capacità progettuali degli altri, cioè dei non-esperti. Il che significa: qualcuno che sia esperto in come stimolare e in vario modo supportare più ampi e articolati processi di co-progettazione.