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L’industria 4.0? Dannosa, Se Mancherà Il Non Profit

«Le tecnologie potranno sostituire il lavoro oppure generare valore condiviso grazie al Terzo settore». Dialogo con Francesco Seghezzi, direttore di Adapt, a cura di Marco Dotti.

Il Terzo settore in transito. Questo è il titolo di una delle sessioni della XVIII edizione delle Giornate di Bertinoro.

Verso dove? Il tema del transito sarà trattato, in particolare, con riguardo alle nuove tecnologie (industria 4.0, fintech, intelligenza artificiale):  nuove sfide che toccano alla radice il legame sociale, i modelli organizzativi e del lavoro. E, appunto, il Terzo settore.
Francesco Seghezzi, direttore della Fondazione Adapt, fra i più attenti studiosi delle mutazioni in atto sul piano dell’industria e delle relazioni che ne conseguono, sarà fra i protagonisti delle Giornate.

Il nesso etica-tecnologia è delicato e fragile. Possiamo a suo avviso parlare concretamente di una sfida etica della rivoluzione 4.0?

Il fatto stesso che, da un lato, abbiamo tanto allarmismo e, dall’altro, registriamo tanto ottimismo ed entusiasmo incondizionato ci deve far riflettere. Queste due posizioni che, in alcuni casi, nel dibattito diventano vere opposizioni ci fanno capire che la questione non è definita.
Non sappiamo, in altri termini, dove ci porterà la cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”. Proprio questa indeterminazione sui fini fa sì che, automaticamente la dimensione etica, ma anche politica siano incluse in questo fenomeno.

Il dibattito è ancora una volta sul rapporto fra mezzi e fini e sulla loro confusione?

Le tecnologie che sono alla base della “quarta rivoluzione industriale” non sono fini in sé, da rigettare o da accettare aprioristicamente, ma sono strumenti. A seconda di come lo strumento viene utilizzato possiamo andare in una direzione anziché in un’altra e questo, credo, sia il problema: interrogarci fin da ora, assumere consapevolezza.

Qui si apre una grande questione: il lavoro…

Possiamo usare la tecnologia sul piano industriale unicamente per sostituire lavoro. In questo caso, il capitale che sostituisce lavoro porta al profitto che non viene redistribuito. Al contrario, possiamo usare la tecnologia per migliorare il lavoro, per diminuire la fatica
dei lavoratori e aumentarne la produttività.
Questa produttività aggiuntiva può, in qualche modo, essere usata per ripagare l’investimento e per essere redistribuita sul lavoro sotto
forma di welfare, premi di produzione.

A seconda di come usiamo la tecnologia alla base della “quarta rivoluzione industriale” possiamo avere uno scenario piuttosto che un altro, da qui il ruolo primario del Terzo settore…

Un ruolo importante, proprio perché il nodo da dipanare è profondamente etico e politico. Oggi siamo chiamati a un nuovo protagonismo in questo, anche perché siamo nel corso di una trasformazione che — attenzione — è stata molto accelerata dai media e dal mondodella consulenza che ci hanno dato l’impressione di trovarci ad un punto molto più avanzato rispetto a quello in cui ci troviamo effettivamente. La rivoluzione 4.0 è solo all’inizio, il Piano Calenda ha sicuramente aiutato a far crescere gli investimenti ma dobbiamo ancora capire che cosa succederà.

Se è vero che la tecnologia è l’elemento cardine da cui tutto parte, questa trasformazione non è assolutamente riducibile alla tecnologia…

È una trasformazione dei modelli di impresa e funziona se l’impresa cambia l’idea. Un’impresa può trarne giovamento ed essere in linea con quanto il mercato le chiede e quanto il consumatore stesso le chiede: l’impresa diventa più flessibile, più volatile da un certo punto di vista, e la tecnologia la aiuta. Al tempo stesso, però, deve cambiare anche l’organizzazione del lavoro. I lavoratori non hanno più un ruolo meramente esecutivo, come era nella produzione di massa, la produzione oggi è più specifica, sartoriale, specializzata. Ecco perché i lavoratori in questa trasformazione devono assumere una centralità nuova, centralità anche decisionale.
Non tutto può essere deciso dal vertice: l’impresa diventa sempre più orizzontale, anziché verticale. Infine, non dimentichiamoci delle competenze dei lavoratori; il capitale umano diventa il vero capitale aggiunto. Senza capitale umano la tecnologia non può fare quasi nulla. La tecnologia esegue. Ma se il capitale umano non è a un livello immediatamente superiore dell’asticella rispetto al capitale fisico non possiamo farci niente. Una tecnologia incredibile, senza chi sappia gestirla, diventa assolutamente inutile.

Serve un salto culturale, dunque?

Per questo mi auguro che agli investimenti in tecnologia seguano investimenti in riorganizzazione dei modelli produttivi e dei modelli di organizzazione del lavoro, oltre che in formazione e competenze. Senza questo passaggio, il risveglio potrebbe essere brusco.
Serve tecnologia, ma serve chi la sappia accompagnare: questa è la sfida.

Fonte: Articolo pubblicato su VITA (settembre 2018)

AICCON

AICCON è il Centro Studi promosso dall'Università di Bologna, dal movimento cooperativo e da numerose realtà, pubbliche e private, operanti nell'ambito dell’Economia Sociale, con sede presso la Scuola di Economia e Management di Forlì.

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