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Articolo di Mario Calderini, Politecnico di Milano

Utilizzando una metafora già ampiamente e opportunamente utilizzata, quella de “il viaggio e la transizione”, è necessario porre l’attenzione sul fatto che alla fine del viaggio non si giunga in un luogo in cui si trovano tutti i posti occupati, perché in questa transizione il Terzo settore non è l’unico protagonista ma deve fare i conti con il mondo del for profit che sta evolvendo sempre più verso il sociale, portando con sé valori che potrebbero dare corpo a modelli di intervento dissonanti rispetto a quelli del Terzo settore. Parlando di impresa sociale, non si può più ragionare (e, di conseguenza, legiferare) per settori perché questi non esistono più, sia a livello di politica industriale sia nel sociale.

Oggetto dell’osservazione non è solo il risultato del processo evolutivo del Terzo settore ma si tratta anche di un processo evolutivo che arriva anche da altri fronti imprenditoriali caratterizzati dall’ibridità e dall’intensità tecnologica. Sull’ibridità recentemente è stato pubblicato un articolo sull’Harvard Business Review in cui Oliver Hart e Luigi Zingales sostengono: “ci siamo sbagliati, obiettivo dell’impresa non è la massimizzazione del valore per gli azionisti ma è la massimizzazione del welfare degli azionisti”. Cioè a dire che sta cambiando notevolmente non solo la nozione di valore, ma anche il perimetro mentale. Sull’intensità tecnologica, invece, bisogna riconoscere il fatto che questa stia trasformando il modello di intervento sociale (e, di conseguenza, l’imprenditorialità sociale) da intensivo di lavoro a intensivo di capitale. Questo per l’impresa significa bisogno di capitali e di competenze. L’intensità tecnologica, quindi, sta facendo sì che vengano attratti dall’imprenditorialità sociale profili di competenza che antropologicamente provengono da un mondo molto diverso rispetto a quello ispirato da una vocazione sociale.

Le startup innovative a vocazione sociale sono combinazioni tra persone che provengono da percorsi tradizionali con altre che invece hanno alle spalle percorsi manageriali e tecnologici molto diversi, creando un mix di competenze che produrranno delle trasformazioni con dei risvolti importanti da un punto di vista della gestione e, di conseguenza, delle forme di governance. Se non si governa il cambiamento di natura che la trasformazione digitale e tecnologica produrrà sui modelli imprenditoriali, purtroppo verranno riprodotti i grandi monopoli globali caratterizzati da tratti capitalistici.

La tecnologia genera quindi una trasformazione rispetto a cui, se non si adeguano i modelli di governance e anche di misurazione di impatto, rischiamo di vedere implodere i modelli imprenditoriali prodotti.

Anche su nozioni e concetti che nell’innovazione sociale sono molto centrali – pensiero comunitario, territorio, socialità come interazione sociale – esiste un problema di delocalizzazione e, quindi, di dematerializzazione che spiazzano tali argomenti a favore di altri come l’intelligenza artificiale e la blockchain. Quest’ultima può essere immaginata come un grande database reputazionale acquisito nelle transazioni sui mercati distribuite in tutto il mondo. Il fatto che ci sia un oggetto digitale e virtuale che sostituisce meccanismi reputazionali locali, sociali, interpersonali, sarà fonte di cambiamento radicale dei bisogni e anche del valore del territorio, ponendoci di fronte ad una scelta interpretativa e operativa: il fatto che la blockchain possa essere un modello alternativo piuttosto che competitivo rispetto ai modelli di socialità territoriale e comunitaria finora conosciuti.

Infine, la grande infrastruttura su cui è basata la tecnologia è una struttura di appropriazione della proprietà intellettuale: la proprietà intellettuale è, infatti, un diritto di esclusiva. Tuttavia, è impossibile calare un tale diritto in un mondo in cui l’esclusiva è un concetto del tutto ortogonale a quelli su cui è basato il costrutto, anche concettuale, dell’innovazione sociale. Ovviamente tutto ciò incide sul lavoro che è stato fatto in merito alla valutazione dell’impatto sociale e sulla nozione di impatto.

Si tratta di una questione molto complicata, sia per un’inadeguatezza culturale sia perché si stanno mischiando o biforcando concetti di impatto e di misurazione molto diversi: esiste, da un lato, un impatto “identitario” e dall’altro un impatto “transazionale” – cioè l’impatto che è l’oggetto, il sottostante, delle transazioni tra impresa sociale e finanza, per esempio. Quest’ultima concezione di impatto, e la relativa misurazione, è connotata da caratteristiche che vanno in una direzione completamente indipendente da qualsiasi sforzo legislativo. Mentre nella valutazione identitaria, evidentemente, lo standard assume più significato in virtù del fatto che con l’impatto sociale si vuole esplicitare un valore di qualità finora implicito, in questo secondo caso il punto chiave è comprendere l’equilibrio di potere tra chi finanzia e chi è finanziato.

Infine, finora i ragionamenti si sono concentrati sulla valutazione di impatto come esercizio ex ante e definitorio, ma è anche fondamentale quello che può essere definito il management dell’impatto, cioè l’applicazione concreta dell’impatto che permette di dare solidità di valori alle imprese che nascono e nasceranno da questi ragionamenti.

Oggi, quindi, è importante pensare all’impatto come metodo di valutazione, di riconoscimento, espressione di valore ma anche come strumento gestionale. Tutto ciò porta a una traiettoria di sviluppo in cui si presenta una convergenza forte tra politiche industriali e politiche sociali.

Ben venga un forte processo di convergenza mosso dalla tecnologia dietro il quale c’è un valore, che è il valore delle competenze, che è sempre stato redistribuito alla società attraverso l’industria mediante un meccanismo di trasferimento di conoscenza.

Laddove l’industria non c’è più, l’innovazione sociale non è semplicemente un modello di soluzione, di presa in carico di problemi sociali, ma una grande opzione di sviluppo che prenderà corpo solo se a un certo punto ci si convincerà che le politiche per l’imprenditorialità sociale sono politiche industriali o politiche di sviluppo.


Questo contributo è pubblicato nel volume “Il Terzo settore in transito. Normatività sociale ed economie coesive” che raccoglie tutte le relazioni e approfondisce i temi emersi in occasione della XVII edizione.

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AICCON è il Centro Studi promosso dall'Università di Bologna, dal movimento cooperativo e da numerose realtà, pubbliche e private, operanti nell'ambito dell’Economia Sociale, con sede presso la Scuola di Economia e Management di Forlì.

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